Paolo Marabini racconta il suo primo viaggio in Marocco.
“Si parte di buon’ora alla volta di Tafraoute: ci aspetta un lungo trasferimento di 320 chilometri, che sulle strade marocchine significano non meno di otto ore d’auto. Moustapha ci raccoglie all’ingresso della medina di Essaouira alle 8.15 in punto, come convenuto. E via, ci indirizziamo verso Sud. Usciamo quasi subito dalla N1, per goderci una quindicina di chilometri sulla strada costiera che da Sidi Kaouki scende fino a Tour Had-Simomu. E’ un altro ritrovo amato dai surfisti, ma non in questo periodo, perché il vento è pressoché assente. Rientriamo verso l’interno e il paesaggio è abbastanza simile, mare a parte, perché siamo letteralmente circondati da piantagioni sterminate di alberi d’argan, che cresce praticamente solo in Marocco: si stima che questa zona ci sia il 90 per cento della produzione mondiale di olio d’argan, impiegato sia per uso alimentare sia per uso cosmetico.
I saliscendi della zona assomigliano molto a certi paesaggi toscani ornati di ulivi, se non fosse che qui le case sono rare e i villaggi, per quanto caratteristici, non si possono certo paragonare per fascino ai paesini della Val d’Orcia o del Chianti. Fino a Tamri viaggiamo all’interno, poi torniamo sulla litoranea e ci godiamo la vista del mare dall’alto, che ci accompagna sino ad Agadir, città portuale a prima vista poco attraente.
Il tempo ci assiste pure oggi: c’è il sole, anche se l’atmosfera è un po’ cerulea e non di quelle ideali per scattare fotografie. In compenso il termometro segna 30 gradi. Usciti dalla caotica Agadir, imbocchiamo la R105 che ci porterà dopo 130 chilometri a Tafraoute. Il paesaggio cambia, anche se gli alberi di argan ci fanno sempre compagnia. In compenso qui siamo nel bel mezzo di vasti appezzamenti di terreno coltivati a ortaggi. E soprattutto grandi distese di fichi d’india, che da bordo strada offrono un incredibile colpo d’occhio. L’esigenza di raggiungere Tafraoute almeno un’ora prima del tramonto, in modo da vedere le rocce di arenaria e granito rosso con la luce ideale, ci induce a saltare il pranzo: per fortuna Mustapha ha avuto la brillante idea, a Tamri, di comprare un bel casco di piccole banane dal gusto delizioso. Pian piano, dopo Bougra, la strada comincia a salire, gli agglomerati urbani si fanno sempre più radi. Passiamo da Ait-Baha e poco dopo la strada costeggia le montagne dell’Anti Atlante. Lo scenario è spettacolare. Ogni tanto spunta un villaggio, qualche piccolo borgo fortificato, retaggio di altri tempi, quando la difesa del territorio era di vitale importanza.
Saliamo fino a 1800 metri, incrociando una manciata d’auto e nulla più. Poi giù verso la valle, 600 metri più sotto, dove ci aspettano le spettacolari rocce di Tafraoute. Sono le 4.30, l’orario ideale per scattare fotografie, ma purtroppo la luce non è amica: il cielo è lattiginoso, il sole pallido e sono un po’ deluso. Peraltro il posto è molto suggestivo, mi ricorda Canyonlands. Se non fosse che un artista belga, tale Jean Verame, anni fa ebbe la discutibile idea di colorare alcune formazioni rocciose di rosso e di blu. Negli anni il colore è sbiadito e il ripasso con colori più tenui ha prodotto un risultato orribile. Penso a quanto possa essere stupido l’uomo molte volte. Con questa riflessione ci avviamo verso l’alloggio che ci ospiterà per la notte, alle porte di Tafraoute, attraversando il centro di questo paesino che guarda in faccia le cime del Jebel Lekst e dell’Adrar Mquorn. Lungo la strada incrociamo alcune donne, che vestono avvolte in un’ampia stola nera, abbigliamento tipico solo di questa regione. L’henné su mani e piedi, oltre a un nastro a diadema, distingue le donne sposate dalle nubili.
Pur senza indicazioni, troviamo immediatamente la nostra meta. In una grande casa su due piani, sistemata per metà solo al piano superiore, ci riceve Aladin. Il suo nome in realtà è Alain, il cognome impronunciabile tradisce le origini olandesi, ma lui è parigino DOC. Venne la prima volta a Tafraoute nel lontano 1971, a soli 19 anni, perché questo, all’epoca, era uno dei posti prediletti dagli hippies, che si radunavano ai piedi delle rocce per quelli che, oggi, chiameremmo rave-party: musica, amore libero, fancazzismo e tante canne (del resto il Marocco è pur sempre il secondo produttore mondiale di cannabis…). Messa su famiglia a Parigi, Aladin è ritornato a Tafraoute nel 2005: cercava un posto con le condizioni climatiche ideali – caldo secco, per intenderci – per convivere con la sua forma d’asma. E ha deciso di comprare un terreno e di aprire un B&B insieme con una coppia d’amici, che però lo hanno abbandonato di lì a un paio d’anni, con il sopraggiungere della crisi economica. Aladin è rimasto solo, ma non ha accantonato il suo progetto e piano piano ha dato corpo alla struttura. Le camere agibili sono 17: sono spartane, ma ben fatte, con buone rifiniture. E pulite. Nourredine è il tuttofare di casa: cuoco, cameriere, facchino, guardiano, giardiniere, all’occorrenza muratore e imbianchino. Sa fare qualunque cosa. E’ lui a cucinare la cena: una tajine d’agnello deliziosa. Siamo gli unici ospiti, e Aladin – che ha spostato la partenza per Parigi apposta per riceverci – cena con noi. E’ un personaggio davvero pittoresco, non diresti che da ragazzo è stato un hippy, semmai ti dà più l’impressione del contadino bretone. La sua compagnia è gradevole, si discorre un po’ di tutto. Ma alle 9 ci congediamo: la giornata è stata un po’ stancante, anche se in realtà non s’è fatto nulla se non farci trasportare in auto da Moustapha“.
Paolo Marabini
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