Emanuela Carla Marabini è in viaggio con Fabrizio Baron, che ci racconta il “suo” Marocco.
“Lasciamo Marrakech dopo due giorni d’immersione totale nella sua antica medina, alternando un lento girovagare tra gli animati souk, a momenti di rilassatezza, seduti in qualche café che si affaccia su Place Jemaa El Fna.
Quando siamo a Marrakech, ci piace fermarci a sorseggiare pigramente l’immancabile tè alla menta, mentre osserviamo la vita che scorre intorno a noi, un altro modo per assaporare il fascino di questa città multicolore.
Siamo in partenza per il Sud, dove le acque del fiume Drâa si perdono nel deserto.
La strada serpeggia tra le verdi valli e le oasi di montagna che fanno da cornice alla Strada del Sale che, da Telouet, scende verso Ait Benhaddou.
Passato l’Alto Atlante, un altro mondo ci accoglie, le foreste di pini e di querce lasciano il posto ai palmeti che seguono il corso dei fiumi. Incontriamo le prime oasi, giardini curati che traboccano di mandorli, melograni e verdure che crescono all’ombra delle palme.
Lungo la Valle del Dadès, il sole del mattino illumina i numerosi castelli di terra, antichi edifici dai muri merlati con alte torri di avvistamento. Si chiamano kasbah, ksar, agadir, nomi esotici che indicano gruppi di case serrate le une alle altre o granai fortificati, costruiti nel passato a protezione dalle razzie e dalle invasioni delle tribù nemiche.
Ci fermiamo alla Kasbah di Amerhidil, che alcune famiglie locali hanno restaurato, con molta lentezza. Adagiati su un tappeto disseminato di morbidi cuscini, all’ombra di un fico centenario, ci rilassiamo nel giardino interno, il riad, sorseggiando il nostro tè alla menta.
Nei giochi di luci e di ombre, tra queste alte mura sbrecciate che evocano antiche battaglie, i bambini dalle lunghe vesti bianche giocano, rincorrendosi; donne discrete, quasi invisibili, si muovono con grazia mentre preparano il pranzo. Le sentiamo ridere tra loro mentre cucinano, riportando alla nostra memoria l’antico detto arabo “una casa senza le risa di una donna, non è una casa”. Ci hanno preparato un delicato couscous di verdure che assaporiamo lentamente, prima di riprendere la strada; non c’è nessuna fretta, è come se il tempo si fosse fermato.
Zagora è l’ultimo grosso centro abitato prima del deserto. Oggi è giorno di mercato e il souk è allegramente animato da centinaia di persone; ci mescoliamo a donne, uomini, animali e passeggiamo curiosi tra banchi di frutta, stoffe, corde, teiere, chincaglierie di ogni genere. E’ qui che abbiamo appuntamento con Nourdine, in arabo “Luce di Dio”, che illuminerà il nostro percorso sulle piste al confine con l’Algeria.
Attraversiamo il ponte sul fiume Drâa e ci lasciamo alle spalle davvero tutto. Con gli occhi seguiamo una mandria di dromedari che s’infila in un sentiero tra le case basse. Dopo qualche minuto di strada nel nulla, ci accorgiamo che nessuno parla, una strana emozione s’impadronisce di noi. Nourddine, tira fuori il suo lungo chech nero, il lungo foulard degli uomini del deserto, e incomincia ad avvolgerlo attorno al viso con gesti antichi, quasi rituali, per proteggersi la testa, il naso e la bocca.
Il deserto si sta avvicinando; cominciamo a sentirlo, sulla pelle, nel naso, negli occhi. La bocca si asciuga, le labbra si seccano, le prime dune incominciano a fare capolino all’orizzonte, dapprima lontane, poi sempre più vicine. La strada asfaltata, che qui è solo una stretta carreggiata, finisce nel nulla; più in là inizia la pista. La polvere finissima lasciata dal nostro fuoristrada alza un muro dietro di noi che ci isola dal resto del mondo; siamo entrati in una nuova dimensione, consapevoli che quest’esperienza ci arricchirà, lasciandoci un ricordo indelebile nel tempo.
La pista corre veloce; a sinistra qualche acacia ad ombrello con lunghe spine appuntite; a destra, in lontananza, la catena montuosa del Jebel Bani, punto di riferimento per chi attraversa queste piste al confine con il Sahara. Eccole, davanti a noi si stagliano contro il cielo le dune dell’Erg Lehoudi.
Circondati dalla magia di questo mare di sabbia, ci fermiamo al campo in cui i fratelli di Nourdine vivono quasi tutto l’anno, come i loro antenati che, fino a cinquant’anni fa, accompagnavano le carovane fino in Mauritania. Una khaimah, tenda scura di pelo di montone, ci attende; è molto ampia, sostenuta da due pali interni che terminano, in alto, su un asse curvo in legno intarsiato. La sabbia morbida è coperta da tappeti e cuscini ancora più morbidi; ci togliamo le scarpe per entrare e riposarci; in mano, il nostro caldo tè alla menta.
Arriva il tramonto e ci spostiamo sulla cresta delle dune, per assistere, con rinnovata emozione, allo spettacolo che si ripete dall’inizio dei tempi. Nourddine accende il fuoco, attorno al quale ci sediamo, in attesa di gustare la nostra tajine che sta cuocendo su un altro fuoco, leggermente più distante. Ci porta l’acqua calda, in un grande recipiente finemente decorato; ci allunga un piccolo sapone che profuma di petali di rosa e ci versa un filo d’acqua sulle mani per predisporci alla cena, che consumiamo nella luce calda e romantica di tante candele.
La notte cala rapida. Il cielo, di un intenso colore blu scuro, è illuminato da milioni di stelle che solo nel deserto brillano di questa luce; se allunghi le braccia, ti sembra di poterle toccare con le mani. Ci godiamo questa magica serata al ritmo antico dei tamburi, piacevolmente ipnotico. Siamo in una dimensione che trascende lo spazio ed il tempo e probabilmente è proprio lì che viene concepita Adventour.
Emanuela Carla Marabini e Fabrizio Baron. 31 dicembre 2003: inizia la storia di Adventour.
Trascorriamo la notte tra le dune. Ci svegliamo quando il sole comincia a sorgere, pronti per fare il pieno di deserto. Percorrere le piste che si perdono in questi spazi aperti rende leggera l’anima; non sappiamo spiegarne il motivo; sarà perché non c’è più fretta, sarà perché siamo impolverati da quel leggero velo di sabbia che ci rende un tutt’uno con il paesaggio, sarà perché … non lo sappiamo, ma è una sensazione piacevolmente indimenticabile che, da sola, merita il viaggio.
Emanuela Carla Marabini e Fabrizio Baron. 1° gennaio 2004.
Ampi orizzonti, chilometri e chilometri di nulla apparente attorno a noi. La pista diventa sinuosa, ci accorgiamo che, proprio dal nulla, in lontananza, spunta un puntino verde; sono le palme dell’ Oasis Sacrée: palme, ombra, una piccola sorgente e le raganelle che sguazzano nell’acqua limpida, incuranti di quello che avviene attorno a loro.
Una donna solitaria, compare improvvisamente, non si sa da dove, con il suo asino; si avvicina al pozzo per fare scorta d’acqua e, con movimenti lenti e cadenzati, cala il secchio vuoto e lo solleva pieno, decine di volte, travasando l’acqua nei recipienti che ha portato con sé.
Continuiamo lungo la pista che prosegue dietro l’oasi. Alla destra, su una piccola altura, scorgiamo un fortino presidiato dai militari; il confine mai segnato tra Marocco e Algeria non è lontano, giusto alla portata di binocolo. Intravediamo all’orizzonte le punte arancioni di quella che sappiamo essere un’enorme distesa di dune. Allunghiamo il collo per vedere le onde nel mare di sabbia.
Il muso del fuoristrada sembra danzare; davanti a noi i colori della natura si alternano, incorniciati dal parabrezza: l’ocra della terra, l’azzurro del cielo, ocra, azzurro, ocra, azzurro, ci siamo quasi. L’emozione sale, tra di noi larghi sorrisi ammiccanti, felici per quello che ci sta aspettando, contenti di esserci conquistati, anche oggi, il nostro angolo di paradiso.
Finalmente ci siamo, le cime delle dune dell’ Erg Chegaga si allargano verso il basso, sempre di più. Quando scolliniamo, le ruote del fuoristrada si fermano da sole sulla sabbia morbida; spegniamo il motore per assaporare il dolce suono del silenzio. Con nostra meraviglia si aggiunge un altro colore: il verde, un verde chiaro, giovane, come può esserlo solo l’erba cresciuta nel deserto dopo una pioggia. Ha piovuto nel deserto; qua e là qualche delicato fiore effimero, di rara bellezza. Intorno a noi sentiamo la felicità, è nell’aria e anche dentro di noi, la respiriamo.
Nella cornice delle enormi dune che l’ultimo sole colora d’oro e di rame, in un verde mare d’erba, mossa da una leggera brezza, due figure candide, un anziano pastore con la jellaba immacolata e il suo dromedario albino, camminano lentamente, al ritmo della vita.
Siamo grati per questo impagabile dono, per esserci, per essere qui, oggi”.
Fabrizio Baron
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