Paolo Marabini racconta il suo primo viaggio in Marocco.
“Mi sveglio presto, tanto per cambiare. Scruto dalle piccole feritoie della camera e intravvedo un piccolo fascio di luce che fa capolino dietro alle montagne. Sono indeciso, ma poi mi rendo conto che la magia dell’alba africana, che pure non mi è nuova, vale più di qualche pagina di un libro: per quello c’è sempre tempo. Salgo allora sulla terrazza e aspetto il sorgere del sole. Fa freddino, l’aria è frizzante, ma sono ben coperto e mi godo un’ora di assoluto silenzio, assorto nei mei pensieri, mentre osservo in lontananza le donne marocchine che stanno avviando un’altra giornata di fatiche. Lasciamo il forte abbastanza presto, direzione Foum Zguid, tappa intermedia di una giornata che ci porterà nel deserto. Da Tata sono quasi 150 chilometri immersi in un paesaggio ameno, su una comoda strada asfaltata che costeggia sulla destra un versante della catena del Jbel Bani. La vegetazione è scarsa e composta per lo più da cespugli e da acacie mentre tutto intorno le colline si alternano ai classici ouadi, i letti dei fiumi che in questo periodo sono quasi completamente asciutti. Non incontriamo praticamente anima viva per chilometri. Un’ora e mezza in beata solitudine, fino a Tissint, da dove poi scendiamo alla volta di Mrhmina, sempre lungo la N12: il confine con l’Algeria è davvero vicinissimo, una ventina di chilometri.
Giunti a Foum Zguid ci dedichiamo una breve sosta, per far benzina, rifocillarci con il classico the alla menta, comprare il tipico turbante berbero modello Lawrence d’Arabia e alcune banane per pranzo. Io mi diletto a immortalare con la macchina fotografica un po’ di scenette di vita quotidiana, negozi, insegne singolari e qualche intenso viso di uomini berberi, avvolti nei loro vestiti e nei loro copricapi tradizionali. Sto molto attento a non farmi accorgere, fotografare la gente da queste parti lo si può fare solo con il consenso del diretto interessato, che il più delle volte viene negato anche con un certo risentimento. A qualcuno può sembrare strano, ma a pensarci bene tutto ciò ha un senso. Immaginiamoci al loro posto: ci concederemmo con disinvoltura di fronte a un marocchino, come a un cinese o a un canadese, che ci punta la macchina fotografica per farci entrare nel proprio album di viaggio, magari addirittura su Facebook?
Una mezzoretta basta a Moustapha per caricarsi in vista della lunga traversata nel deserto che ci attende nel pomeriggio. A Foum Zguid, vivace cittadina di diecimila abitanti, termina infatti la strada asfaltata.
Ci aspetta la prima vera pista di questo viaggio, qualcosa come quasi 150 chilometri fuoristrada da fare a 30-40 orari, sullo stesso percorso che, a suo tempo, era stato una tappa della Parigi-Dakar: hammada, reg ed erg, vale a dire tratti di sassi, di sassi misti a sabbia e di pura sabbia. La temperatura si aggira sui 30 gradi, ma per fortuna non c’è vento, che renderebbe la guida più difficoltosa. Il vento è il nemico più temuto da chi vive nel Sahara. In genere, tra novembre e marzo, anche da queste parti spira l’infido harmattan, il “vento che rende pazzi”, secco e polveroso, che può durare anche due mesi di fila. Pur senza vento, comunque, non sarà certo una passeggiata di salute, la schiena prenderà i suoi bei colpi. E infatti bastano i primi metri per capire che sarà una sorta di viaggio a bordo di un martello pneumatico su quattro ruote.
Il paesaggio si fa subito arido, in principio i sassi la fanno da padroni e fa un po’ rabbia vedere che parallela corre una pista battuta, più agevole, che però non possiamo utilizzare perché probabilmente deve ancora superare il collaudo. Ma che collaudo mai dovranno fare, poi… Moustapha, serafico, non si scoraggia e doma con bravura le mille insidie del terreno. Ogni tanto ci fermiamo per qualche fotografia. Dopo due ore abbiamo percorso una sessantina di chilometri senza incrociare nessuno. A un certo punto scorgiamo in lontananza una scia di polvere, segno distintivo di un’auto in arrivo. E’ una jeep scoperta e quando la incrociamo siamo invitati a fermarci: a bordo ci sono tre militari, che provengono dalla vicina postazione di controllo, una piccola casermetta che svetta solitaria su un’altura in mezzo al nulla più assoluto. Così come all’ingresso della pista, ci chiedono i documenti e veniamo registrati. Moustapha parla in arabo con uno di loro, si direbbe il più alto in grado. Sono affabili, gli spiegano che dopo gli attentati di Parigi hanno avuto ordine di intensificare i controlli anche in questo angolo sperduto del Paese, dove solo pensare di viverci è fuori da ogni logica: eppure di tanto in tanto scorgiamo qualche nomade con un gregge di pecore o una mandria di dromedari. Due minuti, saluti cordiali e riprendiamo la marcia. E io penso a ‘sti militari che se ne devono star lì, in quella casermetta solitaria – e me li immagino in piena estate, con il termometro a 50 gradi – aspettando di vedere all’orizzonte una fumata di sabbia per scendere a chiedere le generalità.
Intanto la pista diventa più agevole. Siamo sul Lago Iriki, che in realtà diventa lago raramente, solo quando arrivano le piogge invernali, in genere tra dicembre e febbraio: il duro terreno argilloso non assorbe l’acqua e si forma così un acquitrino immenso, che in molti casi rende la pista impercorribile, forzando chi passa su questa tratta, da o per Mhamid, a un by pass più vicino all’altopiano del Jbel Bani.
Siamo solo a metà strada, lo spazio attorno è immenso, la vegetazione è ridotta a qualche cespuglio e dà una sensazione di inquietudine, difficile da spiegare a parole. Il termometro ora registra 35 gradi, ma è un caldo secco, non opprimente, che si sopporta senza eccessivi problemi. Scorgiamo il fenomeno della fata morgana ed è un’altra sensazione surreale che solo il deserto può regalare. E mentre ci lasciamo irretire da questo incredibile miraggio, all’orizzonte comincia a delinearsi il profilo sinuoso delle prime dune di sabbia. Emanuela è estasiata, perché questi posti sono per lei un concentrato di ricordi.
Ci stiamo avvicinando alla parte più affascinante della pista, ma anche la più difficile per chi deve guidare. Moustapha è sempre molto concentrato e non sbaglia un colpo. E quando arriva la sabbia inserisce le quattro ruote motrici e ci fa capire che adesso si fa sul serio: sarà come essere sulle più imprevedibili montagne russe. Non è facile guidare su questo genere di terreno, domare gli avvallamenti e le scie delle altre jeep, evitare le zone a rischio insabbiamento, usare le marce ridotte. Dopo un’ora ci fermiamo per una brevissima sosta davanti alle prime grandi dune: giusto il tempo per qualche fotografia e per consentire a Moustapha di sciogliere un po’ la tensione.
Ma non vogliamo correre rischi, perché sarebbe pericoloso attardarci troppo e arrivare a Mhamid dopo il tramonto, così non indugiamo più di tanto: l’imprevisto è sempre dietro l’angolo, soprattutto in posti come questo. L’attenzione cala solo quando ci siamo messi alle spalle l’ultimo tratto di sabbia e Moustapha tira un sospiro di sollievo prima di uscirsene con un italianissimo “Finalmente!”, mentre il sole sempre più basso ci regala quella luce calda, la più bella della giornata, proprio all’ingresso in Mhamid.
Per la notte ci accoglie la Kasbah Azalay. E’ un bel complesso moderno in caratteristico stile arabo, costruito con la tipica tecnica del rivestimento a pisé, cioè con terra e paglia. Le stanze sono ampie e, nel loro piccolo, sfarzose. Il direttore, che Emanuela conosce bene da tempo, ci ha riservato due suite e noi non possiamo che essergli grati per il pensiero gentile. Dopo sei ore di pista nel deserto, sballottati come punching-ball, una bella doccia calda è il regalo migliore che ci possiamo fare. Poi arriva la cena: siamo i soli ospiti del ristorante dell’albergo, due camerieri tutti per noi ci danno il benvenuto con il consueto tè alla menta, che io mutuo con un infuso alla verbena; poi ci servono una grigliata di carne e una tajine di verdura, ideale per rimetterci in sesto del tutto. E il solito tripudio di stelle chiude come meglio non avrei desiderato un’altra giornata elettrizzante. Quanto mi sento fortunato!”
Paolo Marabini
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