Paolo Marabini racconta il suo primo viaggio in Marocco.
“Oggi ci spostiamo ancora verso Sud. Dobbiamo arrivare a Tata attraverso strade – e un pista sterrata – sulle quali incontreremo pochissime anime. La notte è stata un po’ movimentata: i cani di Aladin hanno attaccato ad abbaiare verso le 4, spaventati dai cinghiali che qui pare siano abbastanza numerosi e aggressivi, poi ci ha pensato il muezzin a darmi la sveglia definitiva con largo anticipo sui miei programmi. Poco male, ne approfitto per assistere a un’alba spettacolare e per scattare un po’ di foto con una luce ammaliante. Ma la magia dura poco, il tempo di accendere il telefono e scoprire che a Parigi, poche ore prima, una serie di attentati dell’Isis ha fatto almeno 120 morti. E’ la conferma che ormai non esiste luogo al mondo dove ci si possa sentire al sicuro. E che sono solo ignoranti e prevenuti coloro che fanno di tutta l’erba un fascio e ritengono i musulmani tutti uguali e tutti potenziali terroristi. Finora qua non mi sono mai sentito a disagio, mai ho avuto la percezione di essere in pericolo, di essere preso di mira perché visibilmente occidentale. Anzi, per strada ho incontrato soprattutto rispetto, buone maniere, senso dell’ospitalità. Io penso che un buon viaggiatore sia colui che sa rispettare gli usi e i costumi altrui, anche se non li condivide. Vale per il modo di vivere, per la religione. Purché ovviamente non vada a proprio, inaccettabile, scapito. In pochi giorni quaggiù ho già visto diverse situazioni lontane anni luce da me, dalla nostra cultura, dalle nostre tradizioni, ma da ospite le accetto. C’è una frase di Leopold Sedar Senghar, per vent’anni illuminato presidente del Senegal, considerato tra i più grandi intellettuali africani del XX secolo, che faccio mia: “Tutte le grandi civiltà nascono dall’incrocio di culture”. E ripensando alla carneficina di Parigi non riesco a capacitarmi di come il genere umano non voglia sfruttare questa opportunità.
Aladin ci dà il buongiorno con fare gentile, ma gli leggi sul volto l’angoscia per quello che è successo non lontano dalla sua casa francese e dai suoi affetti. Così la colazione che Nourredine ha preparato con cura vola via rapida, tra poche parole, e alle 8.30 in punto partiamo con Moustapha, in direzione Tata. Il sole e il cielo azzurro ci obbligano giocoforza a tornare alle rocce di Tafraoute, così da poterle immortalare con una luce diversa e da altre angolazioni. Una piccola deviazione che non potevamo non regalarci. E infatti lo spettacolo è decisamente più esaltante rispetto al giorno prima. Poi via, alla volta delle Gole di Ait-Mansour.
Ci arriviamo dopo tre ore di strada praticamente nel nulla, su e giù per le montagne dell’Anti Atlante, tra rocce di mille tonalità di marrone, grigio, verde, con vegetazione rarissima, giusto qualche cespuglio, piccole e grandi euforbie e alberi di mandorle, che sono un po’ il simbolo della regione. Nel cielo non c’è una nuvola, il sole scalda l’aria frizzante della quota: arriviamo fino a 1700 metri. Di tanto in tanto un gregge di capre ci fa intuire che anche quassù, dove non crederesti possibile trovare qualcuno, c’è invece vita umana. Addirittura dal nulla spunta un rettangolo con due porte messe su alla bell’e meglio, il più classico campo da calcio, rigorosamente in terra. E’ un continuo restare a bocca aperta, i contrasti cromatici sono qualcosa di speciale e ricordano certe zone dello Utah e dell’Arizona a me così familiari. Quando arriviamo alle Gole di Ait-Mansour la meraviglia è ancora più grande.
Un palmeto delimita quest’oasi di montagna, a 1300 metri sul livello del mare, incastonata in uno stretto canyon color ocra. Un torrente, in questo periodo quasi completamente asciutto, lo attraversa garantendo con dei piccoli canali l’irrigazione dei campi e degli orti che servono al fabbisogno della piccola comunità che vive nel villaggio. E’ un posto magico. Qua e là spuntano alberi di fichi, mandorli, ulivi, piante di agrumi, palme da dattero, bellissimi cespugli di euforbia.
Ringraziamo di cuore la donna e dio – il nostro, il loro, non importa chi – per lo spettacolo che stiamo vivendo, lontani anni luce dalle miserie degli assurdi comportamenti umani. Basta davvero poco, anche una manciata di datteri offerti da una sconosciuta, per sentirsi in pace con il mondo.
Intanto le banane comprate da Moustapha assolvono anche oggi al loro compito, sfamandoci all’ora di pranzo. E mentre ci muoviamo alla volta di Tata, dove dormiremo, entriamo in un paesaggio lunare e, per la prima volta, affrontiamo una pista sterrata, aperitivo di quelle che poi ci aspettano nei giorni a seguire in mezzo al deserto: 40 chilometri nel niente, circondati da montagne imponenti e dalle formi più bizzarre, con ghirigori geometrici a formare composizioni così sorprendenti da non sembrare certo disegnate da madre natura.
Accolti da un immenso palmeto, alle 3 e mezza arriviamo a Tata, la città rosa, e prendiamo subito alloggio al nostro b&b, ricavato in un vecchio fortino in pietra, utilizzato probabilmente – chissà – dai soldati della Legione Straniera. Eretto su uno sperone roccioso, non lontano dal greto del fiume Tata che in questo periodo ha giusto qualche pozza d’acqua e poco più, a primo acchito ti chiedi come faccia a stare in piedi. E come facciano a non crollare quelle case diroccate che cingono la base del forte, dove bambini felici e spensierati scorrazzano rincorrendo un cencioso pallone, mentre le donne stendono i panni e sbrigano altre faccende domestiche. Qui non ci sono facchini. E trasportare i bagagli su per gli 80 scalini che portano all’ingresso fa venire il fiatone. Ma tanta fatica è ricompensata.
All’ingresso ci accoglie Latifa con un grande sorriso che capisci subito non essere di circostanza. Latifa è la direttrice della struttura e colei che si occupa dell’ospitalità. Capello corto, marocchina di Marrakech, veste all’occidentale, fasciata in un paio di jeans e in un maglioncino. E’ una bella donna di mezza età che trasuda savoir-faire ed entra subito in sintonia con gli ospiti. Ci offre una tisana di benvenuto nel bel giardino interno decorato alle pareti con vasi dai colori sgargianti. Poi ci mostra la struttura, decisamente affascinante e originale. I passaggi tra un vano e l’altro sono molto bassi, tutti segnalati da pon-pon colorati appesi agli stipiti. Il dedalo di corridori ci porta alle nostre camere, tra muri bianchi e altri di pietra, con le porte colorate, tutte diverse fra loro, e vari oggetti alle pareti: vasi, anfore, tappeti, quadri, fotografie. I muri sono molto spessi, quasi un metro, per trattenere fresco e caldo a seconda delle stagioni e delle ore della giornata. La zona, del resto, è nota per essere caldissima durante l’estate, con temperature che raggiungono anche i 50 gradi. Ed è anche per questo che le case di Tata – da cui poi il soprannome – sono per lo più di color rosa: se fossero bianche, leggevo su una guida, abbaglierebbero troppo gli abitanti. Stretti passaggi collegano i locali e anche l’accesso alla camera che mi è stata assegnata è lillipuziano. Chissà, magari qui in passato c’era una camerata, oppure l’armeria o un deposito. Oltre al grande letto matrimoniale ci sono due lettini e si sta decisamente larghi; il bagno è ampio, con vano doccia a parte. E un varco collega la stanza a due piccoli spazi che fungono da ripostiglio. Le finestre sono minuscole, vere e proprie feritoie, da dove la luce filtra flebile giusto nel pomeriggio. In tre parole: mi piace assai.
Manca un’ora al tramonto e nell’attesa decidiamo di fare due passi nel palmeto per goderci la luce più bella di questa magnifica giornata. Il forte, visto da sotto, è ancora più affascinante. Di tanto incrociamo una donna berbera, che subito si copre il volto per paura che la si voglia fotografare e le si rubi l’anima. Qualcuna si ferma, risponde al nostro saluto e scambia quelle poche parole di francese che ha appreso. Fanno una vita dura, per noi difficile da comprendere. Ma è la loro vita e merita rispetto.
Il sole cala rapidamente e decido di salire sulla terrazza del forte per godermi il suo tramonto dietro le montagne. Sono tutto solo in un’atmosfera magica, quasi surreale. Il silenzio avvolge l’aria, di tanto in tanto spezzato dal raglio di un asino in lontananza, dal muggito di una mucca, dal belato di una delle tante caprette appena governate nelle rispettive stalle. Il canto del muezzin si staglia nell’aria e annuncia l’arrivo della sera insieme con il brusco calo della temperatura. Vorrei pubblicare qualche fotografia sul mio profilo Facebook, ma l’impresa è ardua: il segnale è debolissimo, dopo svariati tentativi desisto. Non me ne cruccio, tutt’altro. E’ bello anche questo senso di isolamento, del resto siamo ben lontani dalla civiltà occidentale, così lontani da non sentirne poi più di tanto la mancanza. E ripensandoci, rubo una bella frase ad Antonio Tabucchi, uno dei maggiori intellettuali europei del secolo scorso, riconosciuto come il maggior conoscitore e traduttore di Fernando Pessoa, nonché viaggiatore intelligente per antonomasia, di cui sto leggendo proprio nei giorni marocchini il libro ‘Viaggi e altri viaggi’: “L’umiltà ci raggiunge spazzando via l’arroganza con cui ci aggiriamo nell’urbe moderna”. Mi lascio irretire da questo tramonto spettacolare di sublime bellezza in attesa della cena nel bel patio. Con noi c’è solo un’altra coppia di ospiti, La tajine di pollo è gustosa, saporita al punto giusto, preparata con cura e con amore dalle donne del forte. Intanto è già buio pesto anche se sono solo le 8 di sera. E prima di infilarmi sotto le lenzuola, salgo di nuovo sulla terrazza, dove mi aspetta la stellata più bella mai vista”.
Paolo Marabini
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