Paolo Marabini racconta il suo primo viaggio in Marocco.
“Il secondo giorno in Marocco è, di fatto, il primo. E comincia all’alba. A svegliarmi ci pensa la prima preghiera del muezzin, che attacca quando fuori è ancora buio. Non ci avevo pensato, in effetti. Ma non è un problema. Quando sono in viaggio e giro il mondo, mi piace vivere pienamente la giornata, dall’alba al tramonto, assorbire il più possibile con la luce del sole. E la luce ci impiega un attimo a far capolino attraverso la finestra che, dalla camera, dà sul piccolo giardino interno del riad. Alle 9, quando il sole è già alto, facciamo colazione sulla terrazza, accolti da una temperatura gradevolissima, inusuale anche da queste parti per essere a metà novembre. Siamo in Africa, è vero, ma di questi tempi anche a Essaouira – dicono i locali – in genere fa più freddo. Invece sembra di essere a settembre.
Ci aspetta una giornata a spasso per la città: ad annusare odori, a inebriarci di colori, a vedere da vicino tutte le contraddizioni tipiche delle città africane. L’inizio è benaugurante. Usciamo da Les Sirenes e, dopo nemmeno un minuto, l’occhio mi cade su una vetrinetta sulla quale sono sistemati piccoli oggetti in legno, delicatissimi, manufatti diversi dalle trite e ritrite schiere di soprammobili tutti uguali che pullulano nei negozi delle città e dei villaggi africani. Mi soffermo ad ammirare queste creazioni e, dalla minuscola porticina, s’affaccia quest’uomo dalla faccia vispa e dai modi cordiali, che trasuda orgoglio di fronte al nostro sincero interesse per il prodotto del suo lavoro. Ci racconta, col suo bel sorriso sdentato, che ha 57 anni – anche se ne dimostra una buona decina di più – e che ha lavorato a lungo in Belgio, dove ha appreso questa sua tecnica e raffinato la sua manualità. Non possiamo non acquistare alcuni dei suoi magnifici oggetti di pura arte ebanistica: piccoli contenitori e anche alcune penne in radica di tuia, albero tipico della zona. E prima di pagare – cifra irrisoria, l’equivalente di 30 euro per sei oggetti uno più bello dell’altro – l’omino mi invita a entrare nel suo micro-laboratorio, un cunicolo angusto, al punto da essere quasi proporzionato alle dimensioni delle sue creazioni.
Salutato Mohamed, ci addentriamo negli stretti vicoli della medina, senza una destinazione precisa, ma lasciandoci trasportare da ciò che vediamo e che ci attira, non prima di una sosta irrinunciabile. Emanuela deve per forza acquistare un paio di orecchini, avendoli scordati a casa: lei non può farne a meno – dice che si sente più a disagio senza orecchini che senza mutande – e si ferma davanti al primo negozio di gioielli che troviamo tra le bianche case della medina. La scelta è rapida. Così come la contrattazione. La sorellina parte in quarta: “Mi raccomando, fammi un bel prezzo, che oggi sono la tua prima cliente e ti faccio cominciare bene la giornata”. Il gioielliere – tsè, sprovveduto – prova a giocare alto e spara la prima cifra: “Ai turisti faccio 700 dirham, a te 500″. Emanuela si fa una grossa e grassa risata e rilancia a 300. Quell’altro storce il naso: “400”. Morale: a 360 dirham gli orecchini vengono via direttamente appesi ai lobi dell’italiana più marocchina che quest’uomo abbia mai incontrato sulla sua strada. E io ho la conferma a quello che ho sempre pensato: deve ancora nascere un africano capace di mettere in difficoltà mia sorella di fronte a un acquisto, come avevo nasato due anni prima in Tanzania in una esilarante contrattazione con il commesso di un negozio per turisti che pensava di riuscire a rifilarle una statuetta in legno a un prezzo europeo. Espletata l’improrogabile necessità dell’acquisto, comincia il nostro tour podistico nella medina, con l’immancabile passaggio attraverso il souk jdid, il mercato nuovo cittadino, che come in ogni città africana è una tappa per me irrinunciabile.
Bisogna saperci fare, per passare indenni fra bancarelle e negozi di ogni genere, ammorbati da odori forti, che non a tutti possono essere digesti. Gli aromi dei banchi delle spezie si mischiano agli effluvi degli animali, vivi o morti, ma anche al profumo intenso degli incensi, ai sapori della frutta, della verdura, dei detersivi, agli odori acri dei fuochi, a quelli forti della gente locale.
I commercianti ti attirano, taluni ti fermano. E ci provano, a venderti qualunque mercanzia, pur sapendo che probabilmente non te ne farai nulla. Stare un po’ al gioco è pure divertente, fa parte del tour; Emanuela, anche in questo, ci sa fare. Io un po’ meno.
Il mélange di colori è caleidoscopico. Stoffe, tappeti, cappelli, bancarelle di frutta e verdura si mescolano di continuo, le case bianche a far da sfondo, con le loro porte color blu indaco e le finestre in ferro battuto dai ghirigori arabeggianti. E il cielo azzurrissimo a far da cornice.
Usciti dal souk – senza acquisti – ci dirigiamo verso i bastioni che dominano l’Oceano Atlantico, con la loro fila di cannoni puntata verso il mare, regalando una vista spettacolare.
La cinta muraria protegge la città antica, un tempo dagli invasori e oggi dal taros, il vento che soffia dal mare e che durante l’estate tramuta Essaouira nel Maracana dei surfisti, rendendo però complicato stare in spiaggia o anche semplicemente passeggiare sul lungomare, con la sabbia che si infila ovunque. Anche per questo le vie della medina sono strettissime e le donne indossano l’haik, un’ampia veste bianca che lascia scoperti solo occhi e piedi. Nella nostra passeggiata incrociamo di tutto. Meravigliosi riad si alternano ad abitazioni modeste prima di arrivare alle case fatiscenti del mellah, il quartiere ebraico. E cerco di capire – ci provo tutte le volte – come riesca la gente a vivere in quei tuguri bui, luridi, puzzolenti, che sembrano crollare da un momento all’altro. Come faccia a dormirci, a mangiare, a fare l’amore. Ma nemmeno il tempo di chiedermelo e sono già oltre.
Si arriva al porto ed è un’altra immersione nella quotidianità tutta particolare di Essaouira, dove la pesca occupa una parte importante dell’economia locale. Centinaia di gabbiani volteggiano tra i pescherecci appena rientrati alla base, mentre i pescatori mettono in mostra il raccolto di giornata. Ti imbatti in pesci d’ogni tipo: torpedini, murene, tonnetti, spatole, triglie, pesci spada. C’è anche uno squalo lungo un paio di metri. E poi polipi, granchi reali grandi come la ruota di un camion, ricci dai colori vivacissimi, mai visti prima. Tutto è esposto in qualche modo, ben lungi dal rispettare le ordinarie condizioni igieniche. Altro che HCCP… Ma poi pensi anche che la cottura farà il suo dovere e ti metti il cuore in pace.
S’è fatta una certa ora e la sosta per il pranzo diventa obbligata, anche per far riposare un po’ le gambe, che la loro bella camminata se la sono pur fatta. Optiamo per la terrazza di Taros, un bel localino che dà sulla Place Moulay El-Hassan, la grande piazza di accesso alla medina, dove una brochette di tonno ci rimette in sesto per il resto della giornata, preceduta dall’immancabile the alla menta di benvenuto. Quando non è stagione di turismo, Essaouira conta 70mila abitanti, anche se tutta la provincia arriva a mezzo milione di persone, per lo più dedite alla pesca e alla lavorazione dell’argan, di cui l’intera zona è la patria per antonomasia. Questa è una città che, al pari di molte località di mare, è il tipico crogiolo di etnie e di razze, ombelico di secolari viavai commerciali che hanno portato da queste parti gli antichi romani, poi i conquistatori portoghesi, quindi gli ebrei, che rappresentano ancora oggi un’importante comunità, oltre agli Gnaoua, discendenti degli antichi schiavi neri, dediti a rituali esorcistici e di guarigione sciamanica.
Essaouira ha un fascino particolare, tutto suo, che ha stregato molti occidentali. Come i registi Oliver Stone, Orson Wells e Ridley Scott. O come Jimi Hendrix e Cat Stevens. Ma per il turista superficiale questo è soprattutto il paradiso dei surfers. E in certi periodi la lunga spiaggia che si sviluppa a sud del porto, e si estende a perdita d’occhio, pullula di ragazzi in attesa di cavalcare le grandi onde di Essaouira. Ovviamente non possiamo esimerci dal farci una bella camminata sul bagnasciuga e dedichiamo un’ora abbondante a questo serafico esercizio, lasciando correre pensieri e riflessioni, in pace totale con noi stessi e con il mondo che ci circonda. Poi, sul calar del sole, Moustapha ci viene a prendere e ci accompagna a trovare due vecchi e cari amici di Emanuela. Poco fuori la città, in direzione sud, una breve stradina sterrata devia dall’arteria principale per condurci davanti al cancello della residenza dei Fiorese, Les Pierres Sauvages, che una decina d’anni fa è stata per qualche mese la dimora di mia sorella e di Fabrizio, suo allora compagno di vita; e proprio qui hanno immaginato e progettato insieme Adventour.
France-Marie ci accoglie con tutti gli onori e ci fa sentire subito a casa. Poco dopo arriva anche il marito, Jean-Paul, che è stato console francese in diversi Paesi africani. Io intanto sono già a bocca aperta. La villa assomiglia a una delle nostre masserie pugliesi ed è semplicemente meravigliosa, con tante piccole unità in pietra e calce bianca che i Fiorese hanno arredato con gusto raffinato. Alcune sono affittate, altre sono abitate da Jean-Paul e France-Marie. Il tutto è incastonato in un giardino da favola, con giganteschi alberi di hibiscus, agavi e aloe spettacolari, aeonium generosi, e poi bouganville, piante di agrumi, fichi, melograni, profumatissime piante aromatiche. E il valore aggiunto, oltre alla piscina, è la vista sull’oceano. Diciamola tutta: un buen retiro ideale per godersi la pensione, magari giusto evitando i mesi estivi, quando il vento da queste parti rende la vita un po’ complicata. Jean-Paul e France-Marie sono squisiti, si parla amabilmente e non vorremmo più andar via, ma l’indomani ci aspetta un lungo trasferimento e non vogliamo tirare troppo tardi. Emanuela propone di tornare da Javier e accetto al volo la sua proposta di fare il bis. L’idea di avere ancora un compagno di cena così gradevole non mi dispiace affatto, anche se il pallino della situazione, e della conversazione, è sempre in mano – pardon, in bocca – ad Emanuela“.
Paolo Marabini
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